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mercoledì 12 dicembre 2012

INTERVISTA A LUCA ZETA, DJ E PRODUTTORE

Un eclettico personaggio si aggira per i club di tutta Italia: il suo nome è Luca Zeta, non solo uno stimato dj, ma anche un professionista della musica che ha collezionato ruoli di conduttore televisivo, produttore discografico, compositore, arrangiatore, remixer. «Artista» insomma nel senso più ampio del termine. Con un minimo comun denominatore: la musica dance e in particolare le sue declinazioni italo ed hands up.

Ma come è iniziato tutto questo?
Dai sei anni partecipai ai concorsi per bambini piccoli cantanti; ho poi mantenuto una viscerale passione per l'ambiente e dopo il liceo entrai come dj in una radio locale per passare dopo in tv con un programma musicale e infine come dj in discoteca. Ricordo ancora il mio esordio: il locale poteva tenere 200 persone e la prima domenica in cui ho lavorato entrarono in 580, una soddisfazione grande. Godevo di
un certo seguito nella mia zona; gli allora gestori mi diedero letteralmente le chiavi del club facendomi esercitare e dai lì iniziai come autodidatta alla consolle.

Il primo singolo risale al 1993 con un remix dello storico pezzo anni '80 «State of the nation»; poi la folgorazione per la progressive, la techno e la italodance. Ormai sei sulla scena a grandi livelli da 20 anni; che cosa è cambiato da allora nel tuo modo di concepire le produzioni?
Ho migliorato l'aspetto tecnico, il gusto e l'attenzione per i particolari; cerco sempre di essere puntiglioso, ricercare i suoni e creare testi che favoriscano l'emozione. Sono fiero di questo stile più affinato, ma non mi sento arrivato; un aspetto non è mai mutato: l'entusiasmo per questo tipo di musica. Prima fare un disco non era facile, corrispondeva a un traguardo, oggi per via della tecnologia chiunque è più avvantaggiato.

E come persona registri dei cambiamenti?
Ho abbracciato una certa maturazione e al contempo perso un po' di ingenuità; ho imparato a guardarmi alle spalle, essere critico e oggettivo nei confronti delle produzioni che mi vengono proposte e delle mie. Con il tempo impari a selezionare meglio e ad entrare in un mondo che non è rosa e fiori, ma fatto di amicizie che spesso non sono sincere.

Il 2012 non ti ha visto tirare i remi in barca: registriamo infatti «One more try» con Razyr, «Crazy summer» con Carmixer e da qualche giorno hai annunciato la scrittura di un pezzo firmato però Omar Calia e dal titolo «I don't care». Senza dimenticare l'ep con Sander. Ti va di parlare di queste produzioni?
Volentieri. Innanzi tutto arriverà tra non molto il mio nuovo singolo, tra l'altro non produco un singolo da solo dal 2010. Quest'anno mi sono dato alle collaborazioni, ma è un'inclinazione che mi accompagna da sempre; le sinergie mi rendono felice di fare questo lavoro, considero lo scambio proficuo per me e per gli altri. Citerei Sander con cui ho inaugurato un percorso dal 2006, siamo sempre alla ricerca di nuovi spunti riprendendo nel 2012 nostre vecchie canzoni e dotandole di un abito nuovo. Razyr invece è un ragazzo tedesco che mi fece sentire questo pezzo hands up, cover di un altro del 1990; l'ho rielaborato e ricantato con Sander. Carmixer: c'era già stata una collaborazione nel mio album «Welcometo my world», rimanemmo in contatto; la traccia è buona, secondo me però arrivata troppo tardi al limite temporale delle produzioni estive. Infine «I don't care»: l'idea arriva da un dj tortonese che all'epoca mi fece ascoltare un provino, aveva appena 17 anni. In un concorso per giovani cantanti ho poi notato questo ragazzo che ha vinto; gli ho poi fatto interpretare il brano e già durante la premiazione annunciai la possibilità di cantare nel pezzo; lui aveva 16 anni. La canzone unisce dunque due persone molto giovani; il testo narra di un ragazzo che si innamora di una donna più grande.

Il genere cui ti riferisci è fondamentalmente italodance con qualche venatura hands up. Perché questi due filoni, che all'estero invece raccolgono più di un appassionato, nel nostro Paese rimangono confinati a una ristretta cerchia?
Il nostro Paese è retrogrado, ha difficoltà ad affrontare certi generi; mediamente siamo più pronti a seguire mode consolidate anziché avventurarsi in nuovi filoni. I nostri sono tempi di appiattimento sulla house e ciò che fa tendenza perché le radio suonano quello; la bellezza della musica sta invece nell'apprezzare vari linguaggi. E' qualcosa di assurdo il rinnegamento della musica italodance proprio in Italia, un filone che ci ha reso famosi in tutto il mondo; paradossale che oggi tiri molto il pop Usa che ha preso molto dalla nostra melodia.

Nella tua musica sento uno spirito molto mediterraneo, in synths e ritornelli dimostri un'amore per la canzone italiana tradizionale. Ritieni che la commistione di culture musicali e generi possa fare bene a un produttore qualsivoglia musica suoni?
Sono d'accordo su entrambe i tuoi stimoli, è opportuno lasciarsi contaminare anche seguendo un proprio genere. Quando creo la melodia di un riff, tutto sembra nascere da un momento, un cassetto della mia memoria, in cui ovviamente sono custodite atmosfere di diversissimo registro. Io poi sono impregnato di musica italiana, amo il cantautorato, sono un inguaribile sorcino, non disdegno anche il rock più commerciale e orecchiabile. Magnifici poi gli anni 80, pieni di colore e passione; con il senno di poi i loro suoni appaiono ingenui, ma allora la si sapeva fare musica come ma M maiuscola e c'era costrutto in melodie e arrangiamenti.

In varie occasioni ho notato che ti piace definirti artista: in che senso? E quali connotati pensi debba avere un artista per fregiarsi di tale appellativo?
Non ho mai affrontato questa professione come semplice lavoro e tecnica, ma con creatività, senza ricorrere alle mode e cercando di essere originale. Mi sono avvicinato anche al teatro diplomandomi al Piccolo teatro di Milano. Artista è una denominazione a tutto tondo, rimanda all'estro creativo personale, all'attitudine, a certa estetica ricercata.

Sinceramente come ti sembra il clubbing nel nord Italia?
Sono deluso. Molte personalità anche di buon talento si sono arenate perché il clubbing è diventato sterile. Un dj che vuole emergere si sente chiedere quanti tavoli riesce a garantire, quante bottiglie far ordinare; squallido anche il discorso dei privé o le ragazze che ballano per mostrare quanto è di tendenza il club. Tutto è appiattito, troppo standard, non vedo nei djs la voglia di essere alternativi o pittoreschi. All'estero è diverso: in Francia in camerino ho sentito che i djs suonavano generi del tutto diversi nello stesso set e, cosa impensabile da noi, la gente ballava tutto.

Negli ultimi anni pare che la figura del dj sia stata spodestata di quell'alone di santità che aveva negli anni '90; tecnologia, peer to peer e download rendono oggi l'appassionato indipendente. Il dancefloor si fa così aggiunta, non ambiente sostanziale per imparare le novità. Che ne pensi?
Sono d'accordo. Andavo sempre nei negozi a comprare i dischi in uscita scegliendo spesso produzioni che poi suonavo solo io. Le persone che rivedo oggi e che frequentavano locali dove io ero resident, mi ricordano che quelle tracce non sono mai diventate famose ma che io le suonavo e facevano ballare di brutto. Credo che la musica in un club oggi sia uno degli ingredienti minori in una serata; è più importante avere il tavolo prenotato, sfoggiare il vestito di marca. Sono elementi squallidi e che mi danno una immensa tristezza; non invidio che muove i primi passi oggi.

Che cosa ti piace ascoltare in ambito prettamente dance? E intendo anche le frange lontane dal tuo stile.
Sono estremamente aperto: dipende se qualcosa mi piace, ma mi deve piacere al di là del genere. Seguo anche certo pop dance attuale come Pitbull o David Guetta, ma mi affascina anche il dupstep sebbene non sia melodico; inoltre apprezzo le commistioni fra potenza e melodia. Generi come minimal o house invece non mi dicono nulla.

Francamente che ruolo ritieni si possa ritagliare oggi un ragazzo giovane in un contesto in cui pare tutte le porte ti vengano chiuse in faccia, in cui il talento viene vilipeso da altri interessi, in cui l'individualismo esasperato la fa da padrone?
Viviamo un momento difficile. Ho detto di recente a un giovane produttore animato da tanta voglia di fare: «Siete una generazione arrivata tardi». Oggi se non hai santi protettori, fai poco; e parlo del modo di affrontare il mondo del lavoro, ci sono ristrettezze in tutto. La ricetta per indurre miglioramenti è mettersi in gioco fino in fondo e fare uscire la personalità.

Che persona sei fuori dalla consolle o dallo studio di registrazione?
Uno normale, lontano da quell'idea di star che da varie parti cercano di inculcarci oggi; cerco di distinguermi, di essere effervescente, ma a modo mio, senza tirarmela, sempre tranquillo.

Il mio pezzo preferito di Luca Zeta in assoluto è «Don't forget it» sia nel magnifico remix di Danijay che anche negli altri (Fabrizio e Marco, Sander, ecc). Che ricordi hai di quel pezzo?
Nasce da una collaborazione con i miei soci storici; conobbi poi di Daniele (Danijay) e gli altri remixer. Il testo tocca il senso dell'amicizia, una delle cose più importanti della mia vita.