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domenica 31 marzo 2013

THE MUSEUM OF WONDERS

THE MUSEUM OF WONDERS
Anno: 2011
Genere: drammatico
Durata: 98'  

Voto: 8 

Trama:

Marcel (Fabiano Lioi) gestisce un locale alternativo ed eccentrico in cui le persone hanno la possibilità di vedere scherzi della natura e performers. Il boss si innamora della graziosa prestigiatrice Salomè (Valentina Mio), la quale però, pur fingendo di cedere alle sue avances, è già legata al forzuto Sansone (Francesco Venditti). La ragazza vorrebbe impadronirsi della luculliana
eredità lasciata dalla nonna di Marcel (Maria Grazia Cucinotta).



Recensione:

Un luogo senza coordinate spazio-temporali, che però sarebbe delittuoso intendere come «non luogo». Sì, perché il milieu delineato dal regista romano Domiziano Cristopharo, in questo caso alla seconda occasione dietro la macchina da presa, pare dipinto da un pennello imbevuto di colori fiabeschi, grotteschi e insaporiti da gusto, sapienza e fantasia.

L'opera andrebbe assaporata anche sprovvista della sceneggiatura; un trip talora allucinato tal'altra attraente che non può non polarizzare la piena attenzione di coloro che vivono sulla propria pelle estremismo, sottocultura (sia detto in senso assolutamente buono), underground. Non solo: questo «museo delle meraviglie» si affranca, grazie alla mano del suo «direttore», da un'insidiosa e probabile chiusura a riccio per essere potenzialmente apprezzata da un pubblico più ampio. Ci vuole infatti fegato a non esaltare le proiezioni lisergiche di Cristopharo, la fluidità delle inquadrature, una spiccata capacità di cogliere il particolare, la «stranezza» che si respira dal primo all'ultimo fotogramma. Certe scene sono da elevare indiscutibilmente, così come l'efficiente efficacia delle scenografie che, aprendosi in spazi piccoli ma mai angusti, denotano lo sforzo ben ripagato della camera di valorizzare numerose sottigliezze.

Un intento squisitamente estetico quello del cineasta romano, che punta più sulla forma che sul lirismo puro, che si compiace del proprio talento senza mai risultare tracotante, che incede con il fiato dei grandi risultati. Un'esperienza per gli occhi dunque prima di tutto, che ha radunato varie persone affette da menomazioni fisiche, con tatuaggi, piercing, scarnificazioni.

Il loro aspetto, in alcuni casi cercato in altri imposto dalla natura (splendidamente crudele la battuta di Venditti all'inizio sulla non generosità della madre «natura» riferito a Marcel, dotato di nanismo), si erge a strumento per raccontare qualcosa in più. E dunque la sceneggiatura, invero non troppo declinata, non invadente, quasi timida nel non voler sovrastare un piglio iconografico di cui ha rispetto e un poco anche deferenza. «The museum of wonders» così raccoglie la fulgida eredità di «Freaks» di Browning per attualizzarla senza produrre un'anodina fotocopia. E la riattualizza passando per Greenaway, certo Fellini e, perchè no, anche sua maestà Jodorowski, per umanizzare questi «manichini di carne» (parafrasando il primo film del regista) e sottolineare che in fondo anche loro sono mossi dagli stessi processi mentali ed emotivi del così detti normali.

Dunque si cerca di attenuare l'idiosincrasia fra normalità e anormalità; idiosincrasia solo apparente e comunque ipocrita, poiché i non freaks sono attratti dai freaks, li guardano con repulsione ma li guardano eccome, fottuti voyeur alcuni dei quali sublimano loro stessi handicap o lati oscuri nella visione pruriginosa di chi sta peggio. Eccezionale in tal senso la scena del cliente senza una falange con la telecamera che scende lemme lemme per poi sondare con il medesimo climax gli altri due performers che stavano parlando di lui.

Ancora: l'asseverare che nei «dipendenti» del museo, li si chiami senza pudore e remora artisti (perché in taluni casi di arte trattasi), alberghi un'anima, implica non limitarsi a sciorinare cinicamente una corte dei miracoli da spettacolizzare, bensì rovesciare con intelligenza e disponibilità sentimentale il rapporto freak-normale senza che né in uno né nell'altro gruppo si debba far emergere vincitori o vinti.

Christopharo dimostra un'autentica ossessione per il corpo, tematica che esplode letteralmente anche nell'ultimo lavoro «Red krokodil», divergente per mille motivi da questo, ma in cui l'esposizione della «carne» pudenda comprese diventa sostanza artistica e concettuale. In «Museum of wonders», che a buon diritto è lecito considerare quadro colto ed ambizioso, lo stesso corpo si fa protagonista aggiunto facendo parlare anche i silenzi, donando eloquenza a un'immagine scolpita sulla pelle, parlando una lingua silente ma più espressiva e acuminata di pachidermici discorsi. E allora la comunicazione che ne deriva è circolare, corale, assai profonda e nutriente e le frasi più impostate sentenziano concetti che si ha piacere a riascoltare.

Cristopharo ha radunato sul set anche ospiti e amici tra cui volti molto noti dell'universo recitazione e spettacolo come Maria Grazia Cucinotta, Giampiero Ingrassia, Maria Rosaria Omaggio, Yvonne Sciò, VenantinoVenantini e perfino il grande Ruggero Deodato.

Da sottolineare una fotografia ancora una volta perfetta e capace di accentuare drammaturgicamente i tenori di vari istanti e musiche molto brillanti che pescano a piene mani dall'opera.

La scena più bella? Quell'edificio a forma di torre circolare e con vari disegni di writers che Cristopharo si permette il lusso di trasformare in teatro di rincorse fra due istrionici attori vestiti in modo eccentrico sulle note di arie anni '30. Grande cinema.