Mi avete letto in ...

venerdì 5 aprile 2013

AMOUR

AMOUR
Anno: 2012
Genere: drammatico
Durata: 127'

Voto: 9

Trama:
Una coppia di anziani, Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emanuelle Riva), vivono in un piccolo appartamento seguendo una consolidata quotidianità. Ma la donna viene operata a causa di una paralisi al lato sinistro del corpo; georges dovrà spendere tutto sé stesso per accudirla e sovvertire la sua intera esistenza. 

Recensione:
Ancora una volta Michael Haneke si dimostra il migliore regista
del mondo per un certo genere di film, quelli che tolgono tutto il toglibile e riescono a suscitare un'emozione, un ragionamento e un'idea con un impianto scenografico e sceneggiativo il più disadorno possibile.
«Amour», la sua ultima fatica, incentrata sulle vicende di due anziani sposati uno dei quali, la moglie/donna, viene colta da paralisi nella parte destra del corpo. La situazione sanitaria peggiora sempre più, la signora diventa via via irriconoscibile e il marito è costretto a esercitare "amore" attraverso la care, la cura della patologia.
A mio avviso due ore abbondanti sono troppe, io avrei sforbiciato un quarto d'ora asciugando qualcosina nella prima parte. Questo mi pare l'unico (piccolo, anzi piccolissimo) neo di un'opera destinata non solo a fare breccia nel cuore degli aficionados del regista austriaco, ma anche in tutti coloro che con spiccata senbilità si accostano a certi fenomeni emozionali della vita.
Haneke con una colata di cemento dura come il ferro imbastisce una struttura narrativa autoriale e dotata di maestosa semplicità. Tutto è semplice e misurato qui: l'esiguo numero degli attori, le recitazioni (straordinarie quelle dei protagonisti Trintignant e Riva), l'arredamento della spoglia abitazione, i toni sommessi dei dialoghi e i passaggi della vicenda (pochi ma incisivi). Niente di nuovo per Hanake, il quale non è mai stato strillone di corte, ma sempre entomologo (come ha detto bene Guido) in punta di piedi nelle storie da trattare. Il ritmo allora si fa assolutamente funzionale a catturare lo spettatore avviluppandolo nella sofferenza e nel ragionamento rispetto ai vari significati che emergono. La seconda parte l'ho trovata stupenda, a mio avviso nessun altro regista avrebbe potuto calibrarla con quel livello qualitativo; la prima, sebbene di presentazione, mi è parsa troppo lunga e, come ho già detto, l'avrei leggermente ridotta.
Ma sono bazzecole.
Come non gioire nell'intelletto per vari feedback cui ci costringe/invita questo chirurgo dell'anima che risponde al nome di Haneke:
1) il senso dell'amore: laddove anche la malattia scava nella carne, laddove le cose cambiano e l'età non consente più lo slancio del buon tempo antico, l'aiuto parentale si colora d'amore. Il VERO amore allora è quello astratto, platonico; troppo facile amare quando dopo si fa l'amore, quando in qualche modo si riceve qualcosa in cambio.
2) l'età anziana: la terza età viene mostrata pagina dopo pagina quasi fosse un libro dallo stile sobrio e rispettoso; la malattia sembra un ospite indesiderato ma ineluttabile, nessuna rabbia nei suoi confronti e la delicatezza di cui il regista attornia il letto di dolore ha la stessa sacralità di un confessionale.
3) amare può anche voler dire accettare un desiderio di morte da parte di chi sta male.
Un aspetto che a me ha colpito moltissimo è l'incapacità delle persone esterne al dolore, segnatamente i giovani, di entrare in quel dolore. Quasi che soltanto il sofferente possa capire davvero cosa vuol dire essere menomati, fottuti dal male fisico e morale. Il giovane ex allievo di pianoforte (il cui cd la Riva chiede risolutamente di spegnerlo), la figlia (giocata da Isabelle Huppert)... Dimostrano vicinanza alla coppia di anziani, ma sembrano pesci fuor d'acqua e pare entrino sempre a gamba tesa (non volendo fare male ovviamente) nella casa del dolore.
Questa componente l'ho davvero respirata per tutto il film.
Magnifico il finale, che si presta a più di un'interpretazione.
Questo è un film che verrà ricordato. Sono troppi i sottotesti di grande valore artistico e soprattutto umano che si porta appresso. Ed è troppo pazzesco il modo in cui Haneke tratta il tutto. Quattro attori quattro di cui due protagonisti, zero sovrastrutture e guarda che cosa ne è venuto fuori.