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mercoledì 12 giugno 2013

MIASTENIA: UNA STORIA DI DOLORE MA ANCHE DI CORAGGIO

MILANO - Era in vacanza quando la malattia l'ha assalita la prima volta. Roberta Ricciardi aveva solo 14 anni e la vita davanti, mentre con la consueta energia affrontava una via ferrata in montagna e all'improvviso sentì cedere le gambe. «Per un pelo non sono caduta giù e non so dove ho trovato la forza per arrivare in cima - racconta - nelle settimane successive venni sopraffatta da una stanchezza crescente, sentivo che c'era qualcosa di strano e non capivo il perché. Nel giro di un mese cominciai a vedere doppio e iniziai una trafila infinita di visite mediche». In principio i medici dettero la colpa allo stress, a qualche pena d'amore adolescenziale, alle fatiche dello studio: nessuno capì che
dietro a quegli strani sintomi covava una malattia neurologica grave. Intanto, Roberta non riusciva più nemmeno a masticare e inghiottire, si era ridotta a 40 chili. Si pensò allora a una grave depressione o a un tumore al cervello.

LA DIAGNOSI - Ci volle una crisi respiratoria, quasi fatale, per arrivare alla diagnosi giusta. «Un giorno smisi di respirare - ricorda - mi ripresero per i capelli, attaccandomi a un respiratore. E lì, in rianimazione, per la prima volta dopo circa quattro mesi dall'inizio dei sintomi sentii dare un nome alla mia malattia: miastenia gravis». Quasi una condanna negli anni '70, perché nessuno sapeva come combatterla e non era chiaro come e perché si sviluppasse. Così Roberta in pochi mesi finì immobile in un letto di terapia intensiva. «Nonostante avessi la tracheotomia e fossi costretta a stare attaccata a un respiratore per sopravvivere, grazie all'ingenuità dei miei 15 anni volevo continuare a credere che la malattia prima o poi se ne sarebbe andata. Il mio cervello funzionava benissimo, continuai a studiare, come potevo, anche in quel letto d'ospedale. Dopo quattro anni di terapia intensiva fu allestita una piccola rianimazione in casa mia, perché potessi stare in un ambiente più confortevole e protetto: grazie a quella scelta coraggiosa ho potuto vivere la mia condizione in modo un po' meno drammatico, circondata dall'affetto dei miei cari».

CORTISONE - Per sette, interminabili anni Roberta restò così, in bilico fra la vita e la morte. Poi per caso uno dei medici che la seguivano lesse un articolo scientifico statunitense in cui si raccontava di pazienti migliorati grazie al cortisone: anche lei iniziò la nuova terapia, ancora sperimentale nella miastenia. «La risposta dell'organismo fu immediata; nel giro di tre mesi mi staccarono dal respiratore e mossi i primi passi - spiega Roberta - cominciai a riprendermi e fra tantissime difficoltà provai a ricostruire la mia vita. Dopo un anno detti la maturità e presi la patente, nonostante avessi ancora la tracheotomia. Poi mi iscrissi a medicina, anche per capire e curare meglio la mia malattia. Ogni nozione nuova che apprendevo cercavo di applicarla al mio caso, iniziai ad "aggiustarmi" le terapie da sola. Man mano che andavo avanti capivo sempre di più che la mia miastenia non era una malattia inguaribile, come mi avevano detto fino ad allora, era solo una malattia curata male». Roberta scelse di specializzarsi in neurologia e già alla fine degli anni '80 cominciò a spargersi la voce di quella dottoressa che era stata gravemente ammalata di miastenia e che curava i malati come lei, a Pisa. Lì trovavano speranza e cure adeguate, spesso la remissione totale della malattia.

GUARIGIONE - «I pazienti arrivavano e arrivano demoralizzati, convinti di avere una patologia invalidante contro cui non si può fare nulla - dice la dottoressa -io per loro sono la dimostrazione vivente che non è vero: sono in remissione totale da più di 15 anni, non assumo più terapie e non ho più sintomi, nuoto, sono tornata a percorrere le mie amate vie ferrate». Roberta si è sposata e ha avuto un figlio, una vita del tutto normale. E ama davvero i suoi malati. Lo si capisce quando parla di loro come fossero tutti un po' figli suoi o quando ricorda casi che le si sono conficcati nell'anima. Per esempio, quella ragazza che come lei si è ammalata da adolescente e non riusciva più neanche a salire un gradino, mentre tutti intorno la credevano in preda all’esaurimento nervoso. «Anche lei è diventata un medico, sta benissimo, poco tempo fa mi ha mandato una sua foto in cima al Kilimangiaro. Certo, non tutti e non sempre possono tornare a scalare montagne, ma si può fare molto per chi ha la miastenia. Innanzitutto riconoscendola: la diagnosi a volte tarda ad arrivare, perché è una malattia subdola che colpisce all'improvviso persone sanissime, spesso giovani e forti. Così, si pensa a depressione, stress, ad altre malattie neurologiche».

GUANTI DI VELLUTO - Roberta ha imparato come affrontare la miastenia. «I medici a volte l'aggrediscono con terapie esagerate rispetto all'entità dei disturbi. Contro la miastenia bisogna usare il guanto di velluto, altrimenti si rischia di renderla ancora più intrattabile - spiega - ogni caso è un mondo a sé: bisogna capire come si manifesta la miastenia e, pian piano, "cucire addosso" a ogni ammalato il suo vestito terapeutico. Serve tempo, ascolto, attenzione e tanta esperienza, solo così si ottengono i risultati migliori. Con le giuste terapie si può arrivare alla remissione totale dei sintomi, un traguardo straordinario anche se non è una vera e propria "guarigione", perché, come tutte le malattie autoimmuni, la miastenia è cronica e quindi soggetta a possibili ricadute, in realtà molto rare dopo periodi lunghi senza sintomi. Sono sempre più convinta che non esistano forme di miastenia incurabili, ma che ci siano ancora tante miastenie curate male; la mia storia e quella di tanti altri malati ne sono l'esempio».

AMBULATORIO - La sola, enorme paura di Roberta non è più la miastenia gravis, è che cosa succederà al suo ambulatorio e ai suoi pazienti quando lei andrà in pensione. «Nonostante i tanti anni di attività e i risultati ottenuti, continuo a non avere una struttura dedicata dove accogliere i malati che ho in carico e soprattutto non mi è stato affiancato nessun neurologo cui "passare le consegne". Sarebbe bastato affidarmi due medici, un infermiere e due o tre posti letto per poter dare sicurezza e continuità assistenziale a migliaia di ammalati. Volevo qualcuno a cui insegnare quanto ho imparato in quasi trent'anni dedicati alla miastenia, qualcuno a cui affidare i miei malati, ma per ora solo un sogno. Ed è un dolore immenso». I pazienti conoscono la dedizione di Roberta, arrivano a Pisa da tutta Italia e dall'estero: sanno che saprà gestire la loro miastenia caricandosela sulle spalle, come dice lei.

Chi lo farà dopo Roberta?
Fonte: www.corriere.it