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domenica 2 giugno 2013

RASHOMON
Anno: 1950
Genere: drammatico
Durata: 87'

Voto: 9,5
Trama:
Tre persone si ritrovano a discorrere sotto i portali in rovina di una città: si tratta di un monaco, un viandante e un legnaiolo. L'oggetto del contendere è una storia accaduta solo tre giorni, una violenza carnale perpetrata dal bandito Tajomaru (Toshiro Mifune) ai danni della giovane Masako (Machiko Kyo) davanti agli occhi del marito Takehiro (Masayuli Mori). I tre narrano una versione delle
vicende l'una diversa dall'altra; chi ha ragione?

Recensione:
Si prova deferente pudore quando si ha la tracotanza di avvicinarsi a un'opera d'arte di tal fatta. La messe di suggestioni e sottotesti è al tal punto rigogliosa e nutriente che si teme di smarrire la bussola del discorso e tralasciare questa o quell'altra declinazione.
Siamo al cospetto di un capitolo d'arte talmente fulgido che qualsivoglia dimenticanza, ancorché non cospicua, viene percepita come peccato capitale. In neanche un'ora e mezza Kurosawa delinea un tale capolavoro che Werner Herzog dichiarò che «'Rashomon' è quanto di più perfetto sia mai stato proiettato in una sala cinematografica».
Film che tra l'altro, all'epoca delle sua uscita, un lontanissimo 1950, era destinato ad influenzare cineasti e strutture narrative anche di estrazione diversa (con un remake americano nel 1964 con Paul Newman "L'oltraggio"). E film che, costato l'equivalente di neanche 5 mila dollari di allora, venne durante la lavorazione aspramente criticato dalla casa di produzione Daiei. La stessa guarda caso si ricredette quando lo stesso, tramite l'interessamento della docente di italiano all'università degli studi stranieri di Tokyo Giovanna Stramigioli, fu inviato in Italia e poi al Festival del cinema di Venezia. In quella prestigiosa sede "Rashomon" inanellò la trionfale marcia verso la gloria eterna conseguendo l'Oscar come migliore film straniero, svariati premi della critica giapponesi nonché un Leone d'oro.
Ma cosa permise al mondo di elevarlo destando un tale interesse?
"Rashomon" devia il prevedibile sentiero del semplice film per imboccare l'aureo crinale del trattato filosofico travestito da film. Troppo zeppo, troppo colmo, troppo strabordante di segnali, indizi che rimandano alle riflessioni importanti e necessarie prese in esame e a cuore dalla filosofia. Che infatti si parli della sua fase aurorale o di quella afferente al '900, la filosofia si è sempre lasciata cullare da concetti come il relativismo dei punti di vista, la percezione soggettiva, l'esistenza o meno di un'oggettività inconfutabile. E ancora: se l'universo non è altro che una congerie di pareri antitetici, come è possibile eludere il caos? E soprattutto: fino a che punto l'egoismo dell'individuo determina le scelte individuali e gruppali?
Tutte queste solo apparentemente astratte concettualizzazioni in "Rashomon" non solo albergano, anzi vengono dipinte con le pitture più sopraffine. Utilizzando tre locations meravigliosamente ritratte (il portale della città, il bosco, il terrazzo tribunalizio), Kurosawa fa muovere un gruppo di attori in stato di grazia nello sciorinare quattro diverse interpretazioni dell'avvenimento.
Magia incontenibile: tutte e quattro sono plausibili, credibili, possibili, condivisibili.
Magia ulteriore: in tutte e quattro l'autore del racconto intende salvare qualcosa di sé, il che fa piombare il registro nella considerazione dell'egoismo e della volontà di potere (per dirla alla Nietzsche) come motore (immobile?) degli umani destini.
I minuti scorrono setacciati da una narrazione nervosa e a denti stretti; il meraviglioso personaggio del bandito, giocato da un gigantesco Mifune, è sintomatico della volontà precisa di delineare l'approccio animalesco della libido umana. La leggenda narra che Kurosawa fece stare troupe e attori in quelle lande boschive per un bel po' di tempo e lo stesso Mifune propose di dare quel taglio al suo personaggio.
L'andamento e il montaggio serrati bombardano lo spettatore, talvolta lo premiano, talvolta lo tramortiscono prendendosi gioco del suo raziocinio. La fotografia è pronta come un gatto provvisto di artigli affilatissimi ad ambientare le ansie dello spettatore dentro al film, i dubbi, le perplessità, i ragionamenti. La stessa fotografia, curata da Kazuo Miyagawa, rimanda a diversi valori simbolici che un giapponese assorbirà in tutta la loro portata. Ma anche un europeo avrà quanto basta per reputare Rashomon qualcosa di portentoso e in grado di solcare il suo background in modo indelebile.
«Rashomon» letteralmente significa «la porta di Rasho», uno dei principali accessi alla città di Kyoto.
Accessi ai recessi più reconditi dell'animo umano, battuto costantemente da un pioggia incessante, ingerente, cattiva, acida e indomabile. Chiara metafora della fragilità esistenziale dell'uomo, ogni giorno falcidiata da incertezze circa il proprio ruolo del mondo. Con lo spauracchio del giudizio: in vedano a tal proposito i felicissimi momenti del personaggio che racconta le vicende a un ideale giudice.
Un uomo che può decretare il suo destino? Un'entità superiore e celestiale? La propria coscienza?