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giovedì 22 agosto 2013

TROPPO BUONI CON LE DONNE

Il regista Mauro Stroppa
Cinema e arte: tante le declinazioni, le sottigliezze, le possibilità di godimento. Ve n'è una pregevole, preziosa, nutriente, che li eleva all'olimpo delle invenzioni mirabolanti e che, sia detto a chiare lettere, consegna al fortunato possessore di sensibilità intellettuale le chiavi per aprirlo quell'olimpo. Talvolta una pellicola rimanda a temi più astratti e allora ben
venga il cinema quando si fa lussuoso pretesto per ambire a raccontare, a ingenerare un ragionamento, oltre che naturalmente un'emozione.
Il corto di Mauro Stroppa, giovane attore romano
giunto al secondo capitolo dietro alla macchina da presa dopo «Un gioco da grandi» del 2011 (con l'attore Emanuel Bevilacqua), dimostra di avere compreso tale lezione e dà alle stampe una riflessione sotto forma di commedia circa sessismo, maschilismo, femminismo, emancipazione femminile, competizione, corteggiamento. Insomma una vasta gamma di suggestioni dipanate con buon polso e inventiva per 10 minuti abbondanti e condotte dal ruolo di prim'ordine di Antonio Petrocelli, performer di lusso per Stroppa che, vantando un'illuminata carriera decennale, ha inanellato collaborazioni con Moretti, Mazzacurati, Luchetti, Nuti, la Cavani, oltre a teatro e televisione. Altra «gemma» dell'intero lotto è Roberta Gemma, forse conosciuta da certuni come Roberta Missoni, professione pornodiva ma con qualche zampata nell'ambito cinematografico non propriamente hard come la presenza in tre film del regista Domiziano Christopharo, video musicali e comparsate in televisione. A giudicare dalla sua figura nel presente cortometraggio si direbbe che Roberta possa provare a passare al di là della barricata del porno, non per forza affrancandosi da tale settore, ma integrandolo con il cinema tout court.
Roberta Gemma
In un'aula di sociologia sperimentale un professore (Petrocelli) tiene una lezione sulla capacità da parte di un maschio di conquistare una donna: la trattazione è rigorosa, vengono enucleate tre fasi operative, ma l'attitudine scientifica ed empiricamente verificabile, insieme al verboso discorrere degli studenti, viene interrotta dall'arrivo di una procace studentessa che sovverte ogni equilibrio (la Gemma ovviamente).
Stroppa sa il fatto suo; qualche leggerezza in fatto di direzione dei giovani attori (alcuni dei quali sono poco incisivi nell'eloquio) non gli fanno smarrire la solidità di un lavoro a tutto tondo; al termine si ha l'impressione che il messaggio arrivi, che il dado sia tratto, risultato ottenuto. A Petrocelli è sufficiente un volto dai tratti somatici buca-schermo di default per connotare in brevissimo tempo il suo ruolo e la Gemma fa subito simpatia con un timbro vocale accattivante e la cadenza assai laziale già all'arrivo in scena.
Sprazzi di intelligenza narrativa permettono al regista di dipingere il mutamento di prospettiva davanti a un aggraziato corpo femminile, la meschina (ma si guarda il tutto con un sorriso compartecipato) competizione fra i maschiacci, la caducità del tanto sbandierato auto controllo e la frantumazione dei piani iniziali. Tanto parlare, tanto darsi un tono con il rigore scientifico (apprezzabile in tal senso l'applauso al prof dopo il pistolotto sul «seme del consenso» impiantato in una donna), ma davanti alla realtà tutto frana e la tronfiaggine si sgonfia come un canotto bucato.
Antonio Petrocelli 
Chissà che Stroppa non abbia voluto riflettere anche sull'esteriorità ostentata della moderna società italiana e non; l'immagine allora diventa esplosiva, motivo di gioia ma anche viatico di ansia da prestazione. Una bella donna, quantunque oggetto di desiderio e in grado di sovvertire gli equilibri di un gruppo (di lavoro, di amici, ecc.), può metaforizzare l'aggressiva ricerca di perfezione, performance, esagerazione che le persone oggi vivono qualche volta in modo ansiogeno.
Stroppa si è occupato, oltre che della regia, anche della produzione; montaggio a cura di Francesco Chiatante per questo lavoro molto diverso dal precedente «Un gioco da grandi», dotato di un registro maggiormente drammatico e poetico al contempo. Ambedue peraltro condividono quella simbologia di cui sopra, quella capacità variopinta del cinema di rimandare a ben altro, ad elementi più elevati, meno carnali ma ugualmente pulsanti.