Mi avete letto in ...

giovedì 3 ottobre 2013

EDOARDO DI SILVESTRI: INTERVISTA A UN PRODUTTORE CINEMATOGRAFICO

E' la prima volta che il nostro blog ospita un produttore cinematografico: ne sono passati su queste rune digitali di personaggi, artisti, mestieranti o meno di questa o quella declinazione creativa. Ma un produttore, ovvero chi cura la parte manageriale e logistica dietro a un film, ancora no. L'ospite di oggi passa dalla porta principale poiché non solo si è posto al nostro fuoco incrociato di domande con gentilezza, ma ha approfondito con dovizia di riferimenti ogni aspetto della settima arte con ammirevole polso ed entusiasmo. Con un valore aggiunto non da poco: Edoardo Di Silvestri, questo il suo nome, ha scelto di operare e professionalizzarsi là... Dove osano le aquile... Insomma direttamente a Los Angeles,
dove di cinema si vive. Data la caratura dei suoi ragionamenti e il coraggio dimostrato a rischiare così tanto, non possiamo che augurargli che quegli «angeli» della sua attuale città di residenza lo accompagnino nel suo sogno.

E' affascinante il paradosso fra la tua formazione scientifica (il liceo e la laurea in economia e commercio) e la tua scelta attuale. Da un lato la realtà confinata in coordinate oggettive e empiricamente verificabili, dall'altro la realtà scardinata da fantasia, sogno e unicità di chi la interpreta. Come ti senti in questo percorso?
Visti da fuori, sembrano due mondi inconciliabili; invece considero la mia formazione scientifica estremamente importante per lo sviluppo di quello che ho fatto e sto facendo ora. A un certo punto ho sentito l'esigenza di cambiare pagina, ma l'impostazione manageriale ben si sposa con la macchina cinematografica in cui sono inserito adesso. Ogni pulsione creativa non può prescindere da un controllo delle risorse e lo studio economico mi ha dato padronanza di linguaggio, dinamiche imprenditoriali, conteggi, statistiche. Io mi ci sento a mio agio in questa dualità.

I nomi altisonanti del cinema non ti mancano quanto a collaborazioni: Piccioli, Berardi, Proietti, Piovani. Cosa ti hanno lasciato a livello professionale e umano?
Mauro Berardi rappresenta l'inizio di tutto, con lui feci il primo film a cui ho preso parte con Alessandro Siani ed Elisabetta Canalis. Grazie a questa collaborazione ho avuto il piacere di incontrare Gianfranco Piccioli con il quale ho avuto diverse collaborazioni e un rapporto lavorativo più o meno stabile. Piccioli è per me un maestro, la persona che mi ha insegnato di più o quasi tutto sul come produrre un film, mi ha dato fiducia e piano piano trasferito anche delle responsabilità durante le produzioni dei vari progetti in cui abbiamo collaborato, dandomi la possibilità di occuparmi operativamente della produzione esecutiva sotto il suo coordinamento. Di lui mi piace la curiosità, la capacità di essere sempre aperto a nuovi progetti e nuovi autori, lo dimostra il fatto che ha prodotto davvero un numero considerevole di opere prime.
Un altro personaggio a cui sono legato è sicuramente Vincenzo Cerami, che abbi la fortuna di incontrare nel 2009 casualmente per discutere una mia idea per un progetto teatrale che non ha ancora visto luce ma che non ho affatto abbandonato. In quella circostanza rimasi davvero colpito dalla disponibilità di un maestro come lui ad ascoltare le mie idee e a prendere seriamente in considerazione il mio progetto. Mi diede molti consigli su come migliorarlo e di credere in me, nel percorso fatto e di non mollare. Il caso ha voluto che esattamente un anno dopo ci siamo ritrovati a lavorare sul film «Tutti al Mare» diretto da suo figlio Matteo insieme al quale ha scritto la sceneggiatura. Ed è stato bello ritrovarlo e scoprire che di ricordava benissimo del nostro incontro precedente. Chiaramente ti lascio immaginare l'onore provato oltre a quello di lavorare su un film scritto da lui. Di Proietti posso dire solamente che é un maestro e quando lui é in scena che sia a teatro o davanti a una macchina da presa é e resta un gigante

Quale finora delle produzioni cui hai partecipato ti ha colpito e soddisfatto di più?
Sicuramente un lavoro molto ambizioso dal titolo «All human rights for all», formato da 30 cortometraggi diretti da altrettanti registi e corrispondenti ai 30 articoli della dichiarazione sui diritti dell'uomo. Un progetto meraviglioso che mi spiace non abbia goduto del necessario seguito; Rai ha mostrato alcuni dei corti, ma non tutto il film nella sua interezza. In realtà a mio avviso è una produzione che si può gustare tutta d'un fiato perché si rifà a diversi sapori. Sono orgoglioso di averci lavorato e di avere avuto voce in capitolo diretta in alcuni dei suoi frammenti: E stata anche la prima regia di Giobbe Covatta, ricordo anche un poi di ansia da prestazione ma tutto andò per il meglio.

Mi ritengo fortunato di interloquire con un italiano andato in America per inseguire un sogno. Perché proprio gli US e come ti sembrano per ora rispetto all'Italia in fatto di cinema?
Come molti che vogliono fare questo mestiere, vedevo l'America come una terra ricca di opportunità in tal senso. E in effetti non si tratta solo di un pregiudizio, qui c'è davvero maggiore possibilità di emergere da parte di un giovane. Si ha l'impressione, in fondo sono a Los Angeles solo da un paio di mesi, che ci sia più spazio per tutti e soprattutto che, almeno in questa grande città, la maggior parte dei suoi abitanti sia impegnata professionalmente nel cinema. Infine, cosa da non sottovalutare, l'America ha deciso di investire economicamente massicce risorse nel cinema, di farci un business e sia detto nel senso buono del termine. Un film, per quanto fatto con amore e ragionevolezza, è pur sempre un prodotto commerciale e non dobbiamo avere paura di usare questo aggettivo. Ecco che allora registi che in Italia non avrebbero futuro e probabilmente non partirebbero neanche perdendosi in un oblio di critica e pubblico, qui si ritagliano almeno una nicchia.

E da un punto di vista umano cosa ti stanno lasciando questi primi scampoli di esperienza?
Tieni conto che sono partito per gli US senza conoscere nessuno in loco e avere un lavoro; anzi adesso sto cercando lavoro. Come vedi, ho rischiato, ci sto credendo; lo faccio perché considero che voglio fare questo lavoro più di ogni altra cosa al mondo e devo essere qua per avere tutte le chances. Ovviamente non posso sapere come andrà a finire; ma, anche nella peggiore delle ipotesi, me ne tornerò in Italia arricchito e provvisto di un bagaglio molto maggiore. Italia o un altro Paese al mondo, non è detto che avrò smesso di viaggiare! Una cosa te la posso dire: qui hanno rispetto di noi, amano gli italiani, conoscono bene la cultura artistica e la creatività che ci portiamo dietro. E comunque non sono venuto per tagliare i ponti con il passato, anzi voglio aprirmi a lavori con l'Italia continuando le attività con il mio Stato di origine.

In Italia fare produzione è cambiato molto negli ultimi anni; come guardi al nostro settore produttivo da là?
Sono cambiati molto i tempi almeno da 10 anni se non15. La questione da noi non è solo che non si è implementata quella macchina manageriale che ti dicevo prima; la radice va ricercata nella mentalità, è squisitamente culturale. Latita quel coraggio, quella voglia di rischiare che è fondamentale per far progredire la scena e il commercio stesso. Quando i nostri produttori trovano un format, lo portano avanti, sanno che gira e funziona, il che però penalizza tutti i registi che non vi rientrano. Io invece vorrei che uno come De Laurentis, che pure stimo tanto, o anche produttori di livelli inferiori, fossero più inclini a uscire dai soliti canoni, dessero spazio non solo agli stessi nomi, rifuggissero la ripetitività. Quest'ultima uccide la creatività del nostro cinema! Non è possibile che da noi ci siano registi emergenti a 40 anni. Un regista bravissimo come Ivano De Matteo mi sembra assurdo che, dopo vari film di quel livello, non stia riuscendo a sfondare. Io, potessi, lo chiamerei domani.

Perché oggi in Italia, quanto almeno a livello commerciale, non si possono più fare commedie intelligenti in grado di mostrare pregi e difetti dell'italiano medio? Non è che non riusciamo a scrollarci di dosso il preconcetto che il cinema popolare è di serie B?
La nostra commedia ha fiorito per decenni fino, diciamo, agli anni '80, dopo i quali l'appiattimento ha livellato verso il basso le produzioni. Forse allora quei film non dicevano nulla, erano svalutati, oggi si riprendono in mano e si comprende la loro efficacia. Insomma, se oggi mi vedo una buona commedia del maestro Monicelli, riesco a farmi un'idea abbastanza precisa dell'italiano medio dell'epoca. Rido, ma rifletto e questo binomio è qualcosa di meravigliosamente magico. E poi... Serie B... Torniamo alla concezione di «commerciale»: in America hanno capito che ogni film deve per forza essere commerciale, altrimenti quale produttore investirebbe sul tuo lavoro? Dobbiamo tornare a capire che si può «fare commercio» anche in modo intelligente, volendo bene a una storia, facendo recitare in modo adeguato un cast. Non ci spaventi il vocabolo «prodotto», la cui radice è attinente a «produzione».

Cosa ti senti di dire a quei giovani registi che, anche a fronte di una o più opere prime di valore e che magari hanno vinto anche premi, gettano la spugna sconfitti dall'indifferenza generale?
Un conto sono i registi underground, i così detti indipendenti e un conto chi è già arrivato a una o più produzioni. Per i primi credo ci sia un problema di identificazione di ruolo: premettendo che sono assolutamente a favore dei film low budget e simpatizzo per quanti ci provano, non so quanto sia produttivo ritenersi fuori dal sistema, contrari, trovando preconcetti con persone che invece nel sistema già ci lavorano. A me è capitato di avere a che fare con alcuni di loro e, sebbene li apprezzassi su certi versanti, li univa quella rabbia. Ricordo, e su questo punto molto l'accento, che in Italia esiste una legge per cui un film deve godere di un finanziamento di almeno 1 milione e mezzo di euro. Sotto questo tetto è molto probabile non vengano rispettate le paghe e i requisiti contrattuali dei lavoratori. Questo dato è molto importante! Si può anche decidere, se si ha una bella storia e si trovano fondi sufficienti, di realizzare comunque; ma si conosca questo parametro e se ne capisca il valore. Il discorso è il medesimo anche sulle proteste che alcuni fanno sul tetto che il Ministero richiede per elargire finanziamenti a un film, 21 mila euro. Che male c'è che da Roma si tutelino?
Per quanto riguarda i registi che già sono arrivati al lungo... Non invidio la loro posizione, essere registi in Italia può dare parecchia frustrazione. Dico loro che è un autentico peccato mollare, che ci devono credere tantissimo, che devono avere però anche l'umiltà di cambiare il sistema dall'interno e non solo rinchiudersi nell'autorialità. Una via è anche quella di non essere statici, di viaggiare e di assaggiare una cultura e un tipo di lavorazione diversa. Quindi, se ne abbiamo la possibilità, accumuliamo più esperienza possibili, che fanno crescere a dismisura tecnicamente e umanamente.

Spiegami come ti poni davanti a un nuovo prodotto che ti viene sottoposto. Quali requisiti deve avere per piacerti e per eventualmente dargli una chance?
All'inizio effettuo una lettura molto veloce della sceneggiatura, cercando di pormi nella prospettiva del pubblico. Poi rileggo con molta più attenzione scovando i limiti; è decisivo isolare quelli che a mio avviso sono carenze, tutto è migliorabile e forse l'autore, essendo coinvolto in prima persona, non ha la lucidità di capirle. Questo aspetto è assai delicato, e arriviamo alla terza fase, quella in cui discuto con lui di queste cose che non funzionano. Lo faccio, è bene specificarlo, senza imporre nulla e senza trovare una soluzione; occorre trovare invece dei punti in comune rispettandosi a vicenda e far collimare la mia prospettiva, quella imprenditoriale, con la sua che è prettamente artistica. Da lì poi nasce la sceneggiatura e via via tutti gli aspetti per completare il progetto. La scelta delle locations, il cast, il packaging e i primi contatti per sondare il terreno e accaparrarsi dei finanziamenti.

In generale qual'è lo stile artistico per cui, una volta famosissimo (te lo auguro di cuore), a fine carriera vorresti essere identificato?
Se ti devo dire uno stile, ti dico thriller con venature gotiche, ma come spettatore. Preferirei essere ricordato come un produttore in grado di sperimentare, di concedere spazio ad artisti di talento ma con difficoltà di espressione, di uno che ha dato possibilità e si è dato possibilità di rischiare con coraggio. Questo è il mio modo di concepire questo lavoro, con dinamismo, rifuggendo una stanca figura di produttore che, ottenuta la riconoscibilità, si arena su quella strada e muore lì.

Cosa bolle in pentola nella tua agenda dei prossimi mesi?
Al momento sto lavorando come esecutivo allo sviluppo di un film dal titolo «Orlando e Liviatani» per la regia di Riccardo Papa. Si tratta della sua opera prima, un film noir con elementi di commedia. Per questo progetto abbiamo pensato di mettere in atto un'articolazione trans-mediale dello stesso, e mi spiego meglio, volendo utilizzare anche i new media il progetto prenderà forme e contenuti diversi a seconda del media utilizzato. Mi rendo conto che per il mercato italiano tutto questo può sembrare nuovo ma non lo è di certo per il resto del mondo. E' vero che si tratta di un film italiano che sarà diretto da un regista italiano in cui credo molto, ma la storia di per se ha un sapore internazionale e stiamo cercando di aprire la possibilità a collaborazioni straniere sia in termini produttivi che a livello di cast... Ma non farmi dire altro, perché al momento siamo in una fase di sviluppo in working- progress.