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sabato 5 aprile 2014

IL VENDITORE DI MEDICINE



Sarebbe interessante domandare in questo momento storico a cento persone cosa si intende per “comparaggio”. A naso neanche un quinto saprebbe enunciare con esattezza di cosa trattasi e io stesso, benché conoscessi alla grossa gli intrallazzi di cui parla il film in oggetto, non li legavo a tale vocabolo.
L’indotto illegale intorno alla sanità, il lucro sulle spalle dei malati, i cadeaux elargiti ai medici soprattutto di base per far “girare” il più possibile questo o quel farmaco. Di questo e di una storia umana a ciò connesso
parla l’ultimo film del regista Antonio Morabito, il quale, verbalizzando per corpo e bocca di Claudio Santamaria, vuole raccontare una vicenda di corruzione descrivendo le pieghe malate di questo sistema di cose.
Il film, secondo capitolo del giovane cineasta che anni fa esordì con “Cecilia”, è stato presentato per il Baff nella serata di venerdì  4 aprile al cinema Lux di Busto Arsizio con la presenza in fase introduttiva dello stesso Morabito e del produttore, il conosciuto Amedeo Pagani, il quale ha contribuito alla stesura della sceneggiatura e offre un breve cammeo. I due davanti al numerosissimo pubblico stipato in un cinema stipato in ogni ordine di posto, sono sembrati molto seriamente coinvolti nel progetto e appassionati alla causa.
La stessa “durezza” mostrata sul palco emerge a rotta di collo in una pellicola aspra, che non intende strizzare l’occhio allo spettatore e che, se da un lato prende le distanze da certo cinema militante di qualche decennio fa, offre l’indubbio merito di informare su un universo appunto poco conosciuto alla gente. Molti utenti infatti non si pongono il problema, ma non occorre aver conseguito una laurea in medicina per rendersi conto del mastodontico profluvio di farmaci e del loro moltiplicarsi in marche e modelli anche per sanare la stessa patologia.
Santamaria è dunque Bruno, informatore farmaceutico che opera in una nota azienda diretta da personaggi senza scrupoli che delegano a Giorgia (giocata da Isabella Ferrari), capo squadra cinica e spietata, la rincorsa impetuosa al profitto a tutti i costi anche tagliando le teste dei dipendenti. Il nostro si dibatte pertanto fra uno studio medico e l’altro cercando di convincere i vari dottori a prendere quel farmaco e prescriverlo il più possibile. In ogni occasione porta con sé regalie, benefit e vantaggi da attribuire agli stessi medici (il comparaggio, appunto).
Santamaria si muove con il passo sicuro e arrembante dei grandi attori in un sottomondo purulento alla radice poiché la necrosi morale ha perforato la cultura; l’abiezione di informatori e dottori diventa dunque pratica quotidiana consolidata e si consumano battute ciniche ai danni delle persone, menefreghismi inaccettabili.
Proprio nel non voler essere una trattazione documentale di un fenomeno ma nel voler narrare le vicende di un uomo il film trova un elemento ostativo. La parte umana del protagonista viene soltanto accennata quasi che lui stesso rappresenti un soldatino lanciato verso la difesa di una causa più generale. Si parla sì del rapporto di Bruno con la fidanzata, lo si vede inghiottire varie pastiglie ma non veniamo a sapere molto altro di lui. Un minutaggio leggermente più lungo e un’attenzione più “sensibile” verso la sua vicenda umana a parere di chi scrive non avrebbe guastato.
Al contempo Morabito trova proprio in questa “spietatezza drammaturgica” la sua virtù nell’incedere come un carro armato verso l’obbiettivo. La fotografia oscura delinea la cinerea cornice in cui questi automi odierni, pervasi fino al midollo dell’istinto di lucrare e spogliati di unicità e sentimenti, agiscono tremebondi nell’ombra del sistema valoriale e societario.
E i critici che parlano bene direbbero che questo è un film “necessario”, quanto mai giusto anche in ragione del mondo lavorativo che oggi ragazzi e meno ragazzi si ritrovano a cavalcare. Santamaria infatti, per stare a galla in un’azienda competitiva e anfetaminizzata, si macchia di crimini morali e materiali. Che cosa si fa oggi pur di lavorare? In fondo ci provava gusto a fare così?
In tal senso “Il venditore di medicine” risulta un film onesto e vissuto, bello e a tratti molto bello nel prendere per la collottola lo spettatore e sbattergli in piena faccia una situazione. Situazione tra l’altro da cui nessuno si può permettere il lusso di tirarsi fuori poiché il ricorso alla farmacologia è pratica che tanto o poco si fa necessaria nell’arco di ogni vita. La spontaneità delle recitazioni, non solo del bravissimo Santamaria (presente nel 95% delle scene) e della Ferrari ma anche degli attori collaterali, va appunto in questa direzione: fidelizzare lo spettatore verso una causa eminentemente “umana” su cui è stato fatto troppo silenzio.
Cammeo di Marco Travaglio nei (credibili) panni di Malinverni, un "pesce grosso" della medicina.
Da sottolineare per chi non lo sapesse che il comparaggio è previsto reato nel nostro ordinamento giuridico.