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venerdì 4 aprile 2014

PLANTA MADRE


Luci e ombre per questa pellicola argentina proiettata al Baff in anteprima mondiale. In una sala sorprendente popolata del cinema Ratti di Legnano i due produttori Rossana Seregni e Sandro Frezza hanno presentato al pubblico “Planta madre”, episodio filmico argentino diretto dal regista Gianfranco Quattrini. Girato fra Argentina, Perù e montato in Italia da nente meno che dalla montatrice di Bernando Bertolucci Gabriella
Cristiani, si tratta di una storia di redenzione, di riavvicinamento alla proprie radici, di rock’n’roll, musica a tutto spiano, anni ’70, sostante lisergiche.
Il dramma vissuto dal protagonista, il quale ha perso in giovane età il fratello musicista, lo riporta a ricontrare dopo vent’anni persone e luoghi del suo passato per cercare nelle braccia di uno stregone la risoluzione dei suoi problemi.
Sulla carta il plot parrebbe interessante e già al cinefilo appassionato e incallito vengono in mente altre prelibate pellicole in cui il come back alle radici di un’esistenza permette plurimi ragionamenti ed emozioni. Peccato che qui non si respiri l’aria delle grandi opere: quello che manca più di ogni altra componente è una sceneggiatura degna di tal nome. La storia si arrotola su sé stessa senza esaudire non solo le premesse iniziali ma mettendo sul piatto varie suggestioni privando ciascuna di essere di uno svolgimento avvincente perfino razionale.
Colpisce in senso buono la capacità visuale di Quattrini e il gusto nel far rivivere certo “figliodeifioreismo” anni ’60-’70; vi è una scena in particolare in cui i membri del gruppo (di cui fanno parte i due fratelli al centro della vicende) siedono a terra suonando strumenti particolari. Un occhio attento non avrà tardato ad equiparare l’immagine a certe copertine di space rock come Jethro Tull e simili. Anche le locations portano acqua al mulino del progetto con la navigazione della zattera nelle lande acquose amazzoniche e quell’atmosfera unica che si respira in pertugi del globo tanto affascinanti. Di pregevole nerbo anche il retrogusto della movida-vida loca latina che, unita alla musica esaltante e ai colori sgargianti dei vestiti, catapulta lo spettatore in un clima famigliare e sereno.
Per il resto vi poco di cui essere fieri. Accanto a discrete recitazioni, non spicca nessuno dei personaggi per peso drammaturgico e davvero le vicende paiono costantemente giungere a un punto morto.
L’elemento che maggiormente delude e lo svilimento del viaggio interiore del protagonista dipanato in un ideale asse temporale passato-presente. Non si viene a sapere moltissimo e quel poco rimane in superficie senza graffiare e lasciare davvero una traccia nello spettatore.